La società italiana degli anni Ottanta attraverso la cinematografia

di Lucia Cassarà
Dott.ssa Magistrale in Cinema,
Televisione e Produzione multimediale.
Dott.ssa Magistrale in Lingue e Letterature Europee.
Dott.ssa Magistrale in Pianoforte.

Carlo Verdone descrive gli anni Ottanta come gli anni di Rambo, un’epoca segnata da grande mitomania. Se gli anni Settanta sono quelli dei lungometraggi politicizzati e impegnati, le pellicole degli anni Ottanta narrano un’Italia focalizzata sul benessere economico e sul piacere immediato. La moda dei film d’azione e dei protagonisti invincibili, come Sylvester Stallone, influenza i comportamenti giovanili: dai primi tatuaggi ai tagli di capelli ispirati ai film. Il panorama cinematografico italiano di quel periodo riflette dunque una società in pieno cambiamento.
Lo spirito degli anni Ottanta in Italia comincia già nel 1979. Solo un anno prima il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro segna infatti uno spartiacque decisivo: esiste un’Italia prima del 1978 e un’Italia dopo il 1978. E sebbene la violenza politica non scompare improvvisamente (basti pensare alla strage della stazione di Bologna nel 1980) a partire dal 1979 il clima culturale e sociale del Paese subisce il crescente desiderio di leggerezza, intrattenimento ed evasione.
In campo cinematografico ciò si traduce in una crisi del cinema d’autore, che viene sostituito da una comicità di tendenza più leggera, con attori provenienti dalla tv e un focus su temi legati all’intrattenimento e alla modernità, come il mondo dei locali notturni e la moda. Con l’uscita del film La febbre del sabato sera (1977), diretto da John Badham e interpretato da John Travolta, in Italia si diffonde rapidamente la moda della disco music e il fenomeno del sabato sera come rito collettivo. Le discoteche, che a partire dalla fine degli anni Settanta cominciano a moltiplicarsi sul territorio nazionale, diventano luoghi simbolo di divertimento ed evasione: qui i giovani trascorrono il fine settimana ballando, socializzando e partecipando a un’esperienza condivisa che riflette i nuovi codici culturali e stilistici della gioventù contemporanea.

Dopo la stagione d’oro della commedia all’italiana, dominata dai cinque mattatori, Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, interpreti che aderivano con precisione alle battute di sceneggiatori come Age e Scarpelli, il cinema italiano assiste alla nascita di nuove maschere: quelle dei cosiddetti malinconici. Massimo Troisi, Carlo Verdone e Roberto Benigni inaugurano infatti una stagione diversa, segnata da un tono più intimo, da una comicità fragile e introspettiva.
Questi personaggi raccontano un cinema profondamente autoreferenziale, costruito su esperienze personali e vissuti emotivi. È un cambiamento che riflette lo stato della società italiana dell’epoca, sempre più orientata verso l’individualismo e meno legata a quel senso di solidarietà collettiva che aveva caratterizzato il dopoguerra e alimentato l’immaginario del neorealismo letterario e cinematografico.
I malincomici degli anni Ottanta portano sullo schermo la propria esistenza e i propri sentimenti, ponendo al centro l’individuo più che la comunità. Non a caso molti di questi film sono scritti dagli stessi attori, i quali delineano un cinema quasi autarchico, sulla scia dell’esempio già tracciato da Nanni Moretti con Io sono un autarchico alcuni anni prima.

Massimo Troisi incarna al meglio questa nuova sensibilità malinconica. La sua ironia dolce e trattenuta racconta un’Italia degli anni Ottanta attraversata da un profondo disorientamento, in cui la ricerca dell’amore e di un’identità personale diventa l’unico punto fermo. Nei suoi film, a partire da Ricomincio da tre (1981), Troisi mette in scena un protagonista che si muove tra una società meridionale incapace di offrire reali prospettive ai giovani e un Nord percepito come distante e incomprensibile: è la metafora di un’emigrazione interiore che caratterizza un’intera generazione. La sua comicità nasce dalle difficoltà di comunicazione, dall’incomprensione, da quella fatica di esprimersi che riflette barriere non solo individuali ma sociali, in un Paese trasformato dai ritmi del boom economico e delle sue contraddizioni.
Roberto Benigni inizia la sua carriera in televisione con Renzo Arbore e arriva al cinema rappresentando invece la declinazione più sregolata di questa nuova comicità, proprio per un’irriverenza volutamente volgare e provocatoria. Nel corso degli anni, però, il suo percorso si amplia: dalla comicità anarchica delle prime opere approda a film più complessi, segnando un’evoluzione artistica che lo porterà a intrecciare poesia, impegno civile e dramma.
Ma è soprattutto Carlo Verdone che porta sul grande schermo un disegno dell’uomo medio italiano attraverso gli stereotipi che interpreta, come il nevrotico, l’ingenuo, il bullo. Il suo lavoro nasce da un’osservazione diretta della realtà quotidiana e dei comportamenti degli italiani, raccontati con ironia e una vena di malinconia. La sua formazione, laurea in Lettere moderne e diploma al Centro Sperimentale, oltre all’eredità culturale del padre Mario, critico cinematografico gli dà un solido punto di partenza. Debutta nel 1980 con Un sacco bello, prodotto grazie al sostegno di Sergio Leone, imponendosi con un cinema fatto di personaggi riconoscibili e situazioni concrete. Segue Bianco, rosso e Verdone (1981), che conferma la formula e poi Borotalco (1982), definito da Verdone come “una fiaba di equivoci che ebbe un grande successo e fu premiato con cinque David di Donatello”; con la fine degli anni Ottanta Verdone raggiunge il suo vertice autoriale con Compagni di scuola (1988), che lui stesso considera il film più importante della sua carriera. L’opera è un ritratto lucido dell’Italia di quegli anni e, allo stesso tempo, una fotografia riconoscibile per chiunque abbia vissuto una rimpatriata tra ex compagni di liceo. Verdone mostra cosa si nasconde dietro queste riunioni: malinconia, piccoli rancori mai del tutto spenti, invidie, vecchi amori, bilanci personali e la constatazione di quanto il tempo cambi le persone.

Mentre la discografia italiana vive una stagione di grande slancio, a cominciare dall’album Sotto il segno dei pesci di Venditti (1978), La voce del padrone di Battiato, Dalla dell’omonimo cantautore, (1980), Vado al massimo (1982) e Bollicine (1983) di Vasco Rossi, Polvere (1983) di Enrico Ruggeri, fino a Blue’s di Zucchero (1987), il cinema d’autore attraversa una fase di crisi profonda e il 1985 è l’anno con il minor numero di produzioni italiane. La nascita e la diffusione delle soap opera sottrae pubblico e attenzione all’autorialità cinematografica, contribuendo a ridimensionare ulteriormente il ruolo del cinema d’arte in Italia.
Gli anni Ottanta segnano infatti il definitivo superamento del modello commerciale basato sugli incassi in sala. La televisione contribuisce a questa trasformazione. Il vecchio monopolio Rai, orientato anche alla formazione e alla funzione educativa, lascia il posto alle reti private, che introducono un modello centrato sull’intrattenimento e su un’offerta continua. È un passaggio che modifica l’intero ecosistema mediale italiano e riduce ulteriormente lo spazio del cinema d’autore. A cambiare le regole del gioco non è solo la crescita della tv, ma soprattutto l’esplosione dell’home video: con il VHS il pubblico può acquistare o noleggiare un film e guardarlo a casa, preferendo il piccolo schermo al cinema. In questo contesto il cinema d’autore entra in crisi per vari motivi. In Italia la legge sul cinema finanziava le opere di “interesse culturale”, ma tale sistema non sempre premiava la qualità, ma spesso favoriva chi aveva appoggi politici o contatti privilegiati. Il cinema si trova così a operare in condizioni economiche difficili. Anche registi affermati come Federico Fellini, che negli anni Sessanta potevano contare su una maggiore libertà produttiva, iniziano a incontrare ostacoli nell’avviare nuovi progetti.
Questa condizione di progressivo declino del cinema, che coinvolge non solo la produzione, ma anche le modalità di fruizione delle sale cinematografiche, trova una rappresentazione efficace in Splendor (1989) di Ettore Scola. Il film racconta la vicenda del cinema Splendor, una piccola sala ormai prossima alla chiusura. Jordan (Marcello Mastroianni), la sua compagna Chantal (Marina Vlady) e il proiezionista Luigi (Massimo Troisi) ne hanno curato la gestione per anni, ma si trovano a dover confrontarsi con una società sempre più orientata verso modelli di consumo pragmatici. In un contesto in cui il grande schermo risulta progressivamente marginalizzato dalla televisione, Scola propone una riflessione misurata sul cinema come spazio di immaginario condiviso, segnando la consapevolezza di un mondo culturale in rapida trasformazione.

Accanto all’edonismo e al desiderio di frivolezza, negli anni Ottanta emerge anche una crisi degli ideali e delle relazioni, ben rappresentata dal film Bianca (1984) di Nanni Moretti. Il film mostra personaggi immersi in una condizione di precarietà e incertezza, sia professionale sia esistenziale, tipica di molti giovani intellettuali italiani del periodo. Nonostante l’apparente vitalità, i protagonisti vivono spesso isolamento e incomunicabilità, relazionandosi in modo superficiale o conflittuale. Moretti ironizza sul mondo intellettuale del tempo, criticando ad esempio la filosofia del “self-help” come risposta superficiale a problemi profondi. In questo contesto, la figura di Bianca, interpretata da Laura Morante, rappresenta la fragilità emotiva e la ricerca di un equilibrio sentimentale in un mondo confuso e incerto.
Negli anni Ottanta non manca il sentimento di nostalgia, come testimonia  La famiglia (1987) di Ettore Scola. Si tratta di un film che, pur richiamando la tradizione della commedia all’italiana, ne ha ormai smarrito i tratti peculiari, sostituiti ora da un registro più malinconico, segnato dalla consapevolezza di un tempo irrimediabilmente trascorso. La pellicola conduce lo spettatore attraverso oltre ottant’anni di storia italiana senza mai uscire da un appartamento romano, assumendo così la forma di un ritratto insieme partecipe e disincantato, attraversato da interrogativi sul tempo, sulla memoria e sulle relazioni familiari. Il nucleo domestico diventa la lente attraverso cui leggere l’intero Novecento. È in questo spazio privato che si riflettono, in scala ridotta, i principali mutamenti sociali: i flussi migratori, la ridefinizione dei ruoli, la trasformazione del tessuto urbano e delle forme di convivenza. Il film elabora così un modello narrativo in cui la dimensione individuale e quella collettiva si sovrappongono: una testimonianza del passaggio verso un cinema più introspettivo e memoriale.
La crisi della famiglia e dei valori degli anni Ottanta è ben narrata in La messa è finita di Nanni Moretti dove Don Giulio, interpretato dallo stesso, torna a casa dopo un lungo soggiorno nella parrocchia di un’isola e ritrova la sua famiglia in crisi: suo padre innamorato di un’altra donna vuole cambiare vita, sua sorella in crisi con il ragazzo vuole abortire, sua madre non riesce a reagire e si suicida; anche i vecchi amici sono in difficoltà: Andrea è in attesa di giudizio per vicende di terrorismo e Saverio si è autorecluso in casa. Don Giulio prova ad aiutare i suoi cari, ma davanti alle varie vicissitudini si sente incapace e lui stesso confessa: “la gente ha tanti guai, e vengono da me, e mi parlano e spesso quando mi parlano io mi distraggo e penso ai miei problemi”.
Ne deriva anche qui una malinconia per i tempi ormai passati, quando un tempo la madre portava i primi mandarini della stagione mentre ora “ci sono le ciliegie tutto l’anno, le fragole tutto l’anno, ma che ricordi avranno questi bambini?” […] non torneranno più le merendine di quando ero bambino”.
Così tra questa dolce malinconia e il desiderio di uno modo di vivere, il cinema ha delineato la società degli anni Ottanta del secolo scorso. La narrazione cinematografica, sospesa tra memoria e cambiamento, restituisce l’immagine di un Paese che ridefinisce la propria identità collettiva mentre sperimenta il peso e la fragilità dell’individualismo emergente. L’eredità di quel decennio rimane, ancora oggi, un punto di riferimento per comprendere le dinamiche culturali dell’Italia contemporanea.

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