What a lovely day, today!
Il cinema popolare italiano negli anni ’60 e ’70
di Lucia Cassarà
Dott.ssa Magistrale in Cinema,
Televisione e Produzione multimediale.
Dott.ssa Magistrale in Lingue e Letterature Europee.
Dott.ssa Magistrale in Pianoforte.
What a lovely day, today! ripete più volte Adelaide, protagonista del Dramma della gelosia (1970), quasi a sottolineare l’urgenza, tipicamente italiana negli anni Sessanta, di imparare l’inglese in una società che aspira alla modernizzazione.
Fioraia appassionata di fotoromanzi, Adelaide, interpretata da Monica Vitti, guarda al mondo attraverso quel linguaggio visivo: è il lessico a definirle il destino, a farne un’eroina da fumetto sospesa tra due amori come in un popolare romanzo illustrato. Il triangolo amoroso tra Oreste, Adelaide e Nello si inserisce così in un quadro sociale preciso: il regista Scola filma, nel 1970, un’Italia già segnata da un senso di decadenza, nello spirito e negli ideali.
Nel film la lingua parlata non serve solo per esprimersi, ma diviene un modo di stare al mondo: accanto al linguaggio popolare dei personaggi, il film attinge anche al gergo politico. Oreste, interpretato da Mastroianni interpreta un vecchio compagno comunista che parla come ha imparato nelle sezioni di partito, Nello, interpretato da Giannini, dal canto suo, incarna un pizzaiolo toscano anarchico inizialmente vicino e solidale ad Oreste, che finisce per entrare in collisione con il vecchio compagno sul terreno amoroso.
Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) è un classico esempio di commedia all’italiana e, in questo senso, non rientra nel cinema popolare così come tradizionalmente inteso. Tuttavia, proprio perché recupera toni, archetipi e sensibilità che provengono dall’immaginario popolare, risulta utile interrogarsi su cosa significa davvero popolare nel contesto cinematografico italiano tra gli anni Sessanta e Settanta.
Per dirla con Fofi, il film popolare è un prodotto culturale di bassissimo livello, concepito per distrarre le classi subalterne e per diffondere tra esse una visione del mondo piccolo-borghese. Mentre per Stuart Hall, teorico dei Cultural Studies, la nozione di popolare non è statica, e non è semplicemente legata a ciò che piace a più persone, ma è un campo dinamico fatto da relazioni e conflitti. Popolare è tutto ciò che è oggetto di una costante negoziazione fra cultura dominante e culture subordinate, è quindi un terreno di contesa, non una categoria neutra.
Già Gramsci negli anni Trenta sosteneva che il popolo tradizionalmente inteso non esisteva più. «Ma anche il mondo è cambiato - scriveva - Zola conosceva un popolo che oggi non esiste più».
Il tema della necessità di una costante revisione del concetto di “popolo”, da aggiornare in rapporto alle trasformazioni cui le società contemporanee sono sottoposte, è stato ampiamente sviluppato dagli studiosi del Novecento, che hanno continuato a interrogarsi su questa distinzione.
L’aggettivo, solitamente usato per indicare prodotti di grande successo commerciale, diventa più sfuggente quando lo si applica alle produzioni dell’industria culturale: può un film essere popolare nei temi e nell’estetica pur senza appartenere al cinema di massa? E, soprattutto, ha ancora senso parlare di opere popolari, che siano film, libri o programmi televisivi, nell’epoca della frammentazione dei pubblici e della proliferazione delle nicchie?
Proprio negli anni Settanta la nozione di cultura popolare perde gran parte del suo valore euristico. Da un lato rimane un’etichetta comoda per ricondurre a un’unica categoria fenomeni culturali estremamente eterogenei, dall’altro, rimane un’espressione difficile da definire sia sul piano quantitativo, sia in contrapposizione alla cultura alta.
Alcuni esempi cinematografici chiariscono bene il problema. Sono popolari presso il grande pubblico i film autoriali come Il Decameron (Pier Paolo Pasolini, 1971) e Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972), oppure un titolo dichiaratamente di genere come Milano calibro 9 (Fernando Di Leo, 1972)? Di sicuro la questione è parecchio complessa.
Dopo il neorealismo, gli anni Sessanta si immergono nel filone dei film popolari di carattere storico, basti pensare ai titoli firmati dal regista Vittorio Cottafavi, quali Le legioni di Cleopatra (1959) Messalina, vergine imperatrice (1960), La vendetta di Ercole (1960) o ancora I cento cavalieri (1964).
Mentre in TV venivano trasmesse in quegli stessi anni miniserie televisive come Il giornalino di Gian Burrasca, interpretato da Rita Pavone, sotto la regia di Lina Wertmüller, alcuni registi si impegnavano nel creare nuovi generi che potessero attrarre un pubblico di massa crescente.
È il caso di Sergio Leone e del suo western all’italiana. Per un pugno di dollari (1964), pur riprendendo la trama da un film di Kurosawa, introduce elementi stilistici che ne segnano la novità: un montaggio insolito, l’uso strutturale della musica di Ennio Morricone e una rilettura dell’iconografia del western classico. Dal punto di vista ideologico il protagonista presenta tratti contraddittori: tende a schierarsi con i più deboli, ma mantiene un atteggiamento marcatamente individualista e cinico. Gli spaghetti western di Leone mantengono inoltre i temi tipici del genere, come la wilderness come scenario di violenze, rapine, massacri e tradimenti, resa attraverso paesaggi aridi e quasi astratti. Accanto a ciò compare un discorso ricorrente sul sottoproletariato e sul colonialismo, che aggiunge una dimensione più complessa a un genere nato per il mercato popolare.
Accanto al successo del genere, negli stessi anni non mancano tentativi di sperimentazione del genere. Basti pensare a film quali Little Rita nel West, (Ferdinando Baldi, 1967) interpretato da un giovanissimo, Mario Girotti, in arte Terence Hill, e dagli affermati Rita Pavone e Lucio Dalla, che si muovono in un West costruito come spazio ironico e cantato, lontano dal modello americano e dal modello di Leone.
Esplicativo per le dinamiche sospese tra cinema d’autore e cinema popolare è la versione cinematografica del Don Giovanni in Sicilia, tratta dall’omonima opera di Vitaliano Brancati, realizzata nel 1967 da Alberto Lattuada.
È proprio la natura ibrida del film che ci aiuta a capire il passaggio culturale e produttivo di quegli anni. Per cogliere pienamente tale dinamica basta osservare il percorso biografico e professionale dei protagonisti coinvolti nel progetto. I titoli di testa offrono già un’indicazione preziosa: in apertura leggiamo che si tratta di un film di Alberto Lattuada; segue il titolo dell’opera; subito dopo, la precisazione dal romanzo di Vitaliano Brancati; infine, ciò che le foto di scena avevano già ampiamente preparato allo spettatore, con Lando Buzzanca. In questa successione apparentemente convenzionale convivono tre nomi e un titolo, ciascuno portatore di un mondo distinto. Il nome di Brancati rimanda a uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, autore di un romanzo del 1940 pubblicato da due case editrici di primo piano, Rizzoli e poi Bompiani. Il nome di Alberto Lattuada, è quello di uno dei registi colti del dopoguerra italiano, la cui presenza accentua ulteriormente la tensione tra ambizione autoriale e destinazione popolare.
Il terzo nome, infine, quello di Buzzanca, segnala l’intenzione produttiva di intercettare un pubblico assai più vasto, permettendo al romanzo brancatiano di entrare in collisione con un immaginario comico e pop italiano che negli anni Sessanta viveva un momento di forte espansione.
L’analisi di queste opere mostra come esse riflettano una visione del mondo prettamente maschile. Il fenomeno è tanto evidente da lasciare poco spazio a contestazioni: secondo una delle più consolidate opposizioni della narrazione classica, la figura maschile occupa il ruolo del soggetto, mentre la figura femminile assume quello dell’oggetto. Buzzanca, e dopo di lui Pippo Franco, Renzo Montagnani, Alvaro Vitali, Lino Banfi, Gianfranco D’Angelo e le altre maschere della cosiddetta “commedia del genere” (nel senso di gender comedy), sono sempre i depositari dell’azione: figure autorizzate a disporre liberamente dei corpi femminili, i quali appaiono vincolati ai ruoli canonici: la moglie, la figlia, l’allieva, la compagna, la prostituta, la suocera, la madre, l’amante. Per quanto erotica sia la commedia in questione e per quanto venga recepita come tale dagli spettatori dell’epoca, attraverso quello che lo storico Brunetta definisce un “voyeurismo da sedicenni”, la rappresentazione che emerge è quella di un mondo tradizionale, patriarcale, arcaico, nel quale il dominio maschile è naturalizzato attraverso l’esercizio di una violenza simbolica.
Negli anni Settanta, un ruolo di primo piano assume Paolo Villaggio con il suo personaggio Fantozzi, che più di ogni altro ha incarnato l’italiano medio, dal boom economico degli anni ’60 fino almeno alla metà degli anni ’80.
Il ragionier Ugo Fantozzi, matricola 7829/bis, è costantemente schiacciato dai potenti della sua azienda. Nelle sue gag tutto è grottesco e mette in luce i meccanismi sociali e lavorativi dell’Italia del tempo. In un mondo fatto di arrampicatori sociali, adulatori dei capi e assenteisti, la comicità non è mai gratuita, ma diviene satira. Anche l’episodio della Corazzata Potëmkin ne Il secondo tragico Fantozzi (1976) si colloca pienamente in questo discorso. I lavoratori sono costretti a partecipare al cineforum, vittime della devozione del professor Riccardelli per il cinema d’arte. Dopo l’ennesima proiezione del capolavoro eisensteiniano, Fantozzi pronuncia la celebre sentenza della “cagata pazzesca”, dando inizio alla rivolta. Riccardelli, che si atteggia a intellettuale emancipatore, rivela la propria mediocrità: la convocazione del cineforum durante la partita della Nazionale sottolinea quanto il potere ignori deliberatamente lo spettacolo popolare. La ribellione si manifesta attraverso un processo di “scolarizzazione inversa”: Riccardelli è obbligato a visionare i film della cultura popolare che tanto disprezza.
Ma di sicuro la televisione italiana contribuisce al discorso che ruota intorno alla definizione di successo di pubblico di massa.
È infatti il 22 gennaio 1976 quando Mario Soldati, sulle pagine del Mondo, firma un articolo destinato a suscitare polemiche: Pollice verso Sandokan. Si riferisce allo sceneggiato televisivo in sei puntate diretto da Sergio Sollima e interpretato da Kabir Bedi, criticandone la lentezza e la scelta del protagonista, ritenuto lontano dal personaggio salgariano.
In realtà lo sceneggiato conquisterà record d’ascolti: il successo rispecchia i fermenti che attraversano il sistema mediale e l’industria culturale italiana degli anni Settanta. Sollima cerca di rilanciare il film d’avventura emancipandolo dai codici naïf tradizionali, puntando su maggiore realismo e valorizzazione dello spettacolo. Le reazioni sono contrastanti: da un lato lo si accusa di piattezza rispetto ai romanzi, dall’altro lo si accusa di errori culturali che snaturerebbero l’originale.
Morandini, a differenza di Soldati, individua tre direttrici decisive di Sandokan: avventura, folklore, ideologia. Sollima riesce infatti a mantenere alta la suspense e a veicolare con equilibrio un aggiornamento storico-politico in chiave antimperialista, e ancora la scrittrice Natalia Ginzburg difende la vocazione popolare dell’opera.
Il successo è tale che la Rai organizza un tour promozionale del cast, dando vita a un’improvvisa esplosione divistica che travolge tutti gli interpreti e alimenta un vasto mercato di merchandising ispirato a Sandokan. Le ragioni di questo impatto non sono mai state identificate con chiarezza. Si è parlato di un pubblico desideroso di novità, del fascino esercitato da Kabir Bedi sulle spettatrici italiane, ma appare più convincente l’idea che il successo risieda nella miscela di esotismo ed erotismo, perfettamente in sintonia con un contesto sociale alla ricerca di modernità, evasione e orizzonti culturali alternativi, tra nuove religioni e nuove identità razziali. Con Sollima, la televisione diventa il luogo simbolico dell’esplosione dell’industria culturale italiana.
La televisione degli anni Settanta getta le basi per una trasformazione: è in quel decennio che il concetto di cultura popolare smette di coincidere con un’idea stabile di gusto delle masse e diventa, piuttosto, il terreno di un continuo scambio tra logiche produttive, aspettative del pubblico e tensioni sociali. Oggi tale dinamica è ancora più evidente. Nell’epoca delle piattaforme e della cultura algoritmica, il popolare sembra coincidere con ciò che è mainstream, serie come La casa di carta, Squid Game, Gomorra, prodotti costruiti con precisione industriale per massimizzare il consumo globale. Il successo è quasi garantito, ma spesso a discapito dell’autorialità e della sperimentazione, mentre il pubblico partecipa alla circolazione dei significati attraverso pratiche di appropriazione, memificazione e riscrittura che ampliano ulteriormente il campo del pop. Se il cinema e la televisione degli anni Settanta aprivano già una frattura tra ambizioni autoriali e mercato di massa, oggi questa tensione si è moltiplicata, rendendo ancora più difficile distinguere ciò che è popolare da ciò che è semplicemente visibile. È proprio questa instabilità a confermare quanto la nozione di popolare sia un concetto in perenne mutamento: non una categoria fissa, ma uno spazio dinamico attraversato da desideri, conflitti, strategie produttive e nuove forme di partecipazione spettatoriale. Comprendere il popolare significa dunque interrogare il presente con gli strumenti elaborati nel secolo scorso, consapevoli che ogni epoca ridefinisce il proprio pubblico, i propri miti e il proprio immaginario condiviso.