Gli anni ’80 di Franco e Nanni

di Lucia Cassarà
Dott.ssa Magistrale in Cinema, Televisione
e Produzione multimediale
Dott.ssa Magistrale in Pianoforte

Ho fatto scalo a Grado/
La domenica di Pasqua/
Gente per le strade/
Correva andando a messa

Recita così la canzone Scalo a Grado di Franco Battiato in una delle scene più celebri del film Bianca di Nanni Moretti, pellicola del 1984. La canzone scelta dal regista fa parte del dodicesimo album di Battiato, L’arca di Noè, pubblicato nel dicembre 1982 dall’etichetta EMI. Tra gli altri brani di successo dello stesso album si ricordano Radio Varsavia e la celeberrima Voglio vederti danzare.

In Bianca Michele Apicella (l’alter ego di Nanni Moretti) è il nuovo professore di matematica del liceo Marilyn Monroe di Roma, una scuola tutt’altro che convenzionale, dove gli studenti ascoltano Il Cielo in una stanza di Gino Paoli durante le lezioni del professore di storia.
Al suo primo giorno di lavoro il protagonista incontra la collega Bianca, (interpretata da una giovanissima Laura Morante) e se ne innamora. Ma Michele non è una persona come le altre: appena trasferitosi in un nuovo appartamento, vive secondo manie ossessive. Nella sua testa, dove la logica è legge, non c’è spazio per l’idea che una coppia possa tradirsi o lasciarsi. Le sue esasperazioni per ciò che nella vita non va secondo gli schemi, (dagli amici che non sono sinceri tra loro alla moda delle brutte scarpe moderne) lo trasformeranno in un serial killer. È chiaro, però che in Bianca il giallo non è nemmeno il pretesto per portare avanti la storia, visto che, come obietta Michele al commissario “qui non siamo davanti a un assassino di maniera, al «solito maniaco» che nella sua diversità conferma e stimola le capacità di intervento”.

In una storia che narra crimini, Moretti non rinuncia infatti al suo solito sarcasmo, al divertissement, al paradosso comico, ai toni della commedia che più gli si addicono. Ne è proprio un esempio la sequenza in spiaggia, a Fregene. La scena è introdotta da un’inquadratura in cui Michele, sulle note di Scalo a Grado di Battiato, osserva tutte coppie avvinghiate sulla spiaggia; poi nota una giovane  in topless sul telo da sola. Sorride, si alza e si va a sdraiare su di lei, convinto che questa sia la norma. Alle urla della giovane tutti uomini si alzano e lo cacciano. Le parole della canzone di Battiato, che parlano di rituali religiosi e gesti collettivi, aggiungono un livello di straniamento, ed è come se commentassero l’azione dall’esterno, sottolineandone l’assurdità e il senso di disadattamento del protagonista nella società degli anni Ottanta in cui vive.

Ciò che lega il testo di Scalo a Grado alla scena in questione è proprio il concetto della solitudine, che diventa la lente attraverso la quale osservare la realtà: il punto di vista della canzone coincide con lo sguardo di Battiato che, giunto nella cittadina friulana, si percepisce come un estraneo in mezzo ai suoi simili. L’intera narrazione del brano si costruisce su una serie di contrasti e paradossi: coloro che partecipano al rito di Pasqua, assistendo alla funzione, recitando preghiere e salmi, sembrano perdere progressivamente la propria umanità, diventando artificiali, quasi contraffatti. La ripetizione meccanica dei movimenti trasforma le persone in una massa indistinta, annullando l’individualità e riducendo l’umano a una collettività anonima. Le formule latine recitate in chiesa rappresentano un’abitudine; non nascono più da una vocazione autentica, e ci si reca dal confessore più per il bisogno di liberarsi dal senso di colpa che non per una vera ricerca di redenzione.
Persino i versi di Mattina di Ungaretti presenti nel testo della canzone, vengono evocati in forma deformata: quel celebre M’illumino d’immenso acquisisce qui un’accezione del tutto opposta a quella originaria. Se, da un lato, il poeta ci suggeriva con quelle parole l’indicibile bellezza dell’attimo, Battiato ne rovescia il senso in maniera parodistica.

Il brano di Battiato non è l’unico nella cinematografia di Moretti. Non si esagera dicendo che dal punto di vista emotivo i vertici dei film della sua cinematografia sono spesso queste scene sospese affidate alla musica e talvolta con i personaggi che ballano o cantano.
Negli anni Sessanta le canzonette avevano avuto un ruolo centrale nel sistema dei media in Italia e come tali erano state usate nel cinema. La canzone pop italiana era il sogno di un altrove e allo stesso tempo l’impossibilità della fuga.
Vent’anni dopo Moretti riprende con maggiore forza l’utilizzo di canzoni pop nei suoi film, spesso deformandole attraverso la propria voce, facendone un cliché della sua cinematografia. Oltre alla voce di Battiato il regista romano omaggia: Adamo con la canzone Lei in Ecce Bombo, Mina con Non credere in Sogni d’oro,  Caterina Caselli con Insieme a te non ci sto più in Bianca oltre al già citato Gino Paoli con Il cielo in una stanza e Bruno Lauzi con Ritornerai in La Messa è finita.

Le canzoni che accompagnano i personaggi interpretati da Nanni Moretti appartengono a una sorta di famiglia di pop ironico e malinconico, che dialoga sottilmente con il tono dei suoi film. Uno degli aspetti più interessanti della sua cinematografia è proprio l’intreccio tra la costruzione spaziale dei set e l’uso discreto ma incisivo di elementi della cultura di massa contemporanea o appena trascorsa: canzoni, oggetti, arredi, dettagli quotidiani. Quasi senza darlo a vedere l’opera di Nanni Moretti è una specie di viaggio nella modernità italiana di quel tempo.

Il film successivo a Bianca si fa aspettare solo un anno. La Messa è finita esce a Roma, a metà del novembre 1985. Ancora una volta Nanni sceglie una canzone di Battiato per una scena della nuova pellicola. Si tratta de I treni di Tozeur, brano di grande successo dello stesso cantautore, portato insieme alla bellissima e carismatica Alice all’Eurovision Song Contest del 1984 (dove si classificarono al quinto posto).

La vicenda ruota attorno a Don Giulio, interpretato da Nanni Moretti, che per la prima volta abbandona il suo alter ego Michele Apicella. Dopo un periodo trascorso lontano per una missione, il sacerdote torna nella parrocchia d’origine, ma fatica a ritrovare un senso di appartenenza, sia nella comunità sia tra gli amici che aveva lasciato. Nel tentativo di riallacciare i rapporti familiari e recuperare le amicizie dell’infanzia, Don Giulio si confronta con un ambiente profondamente cambiato. Il mondo che lo circonda gli appare distante, quasi irriconoscibile, e il senso di spaesamento che ne deriva lo porta a interrogarsi sulla propria vocazione e sul significato del suo ruolo.

Una delle sequenze più cariche di malinconia e spaesamento è ambientata in un bar di periferia, ricavato dall’ex drive-in di Casalpalocco, una struttura costruita negli anni Sessanta sulla via per Ostia. Con la sua architettura aperta e decadente, il luogo richiama un’idea di modernizzazione all’americana mai compiuta, contribuendo al senso di sospensione che attraversa il film. Don Giulio è qui di spalle, assorto, mentre telefona, la canzone di Battiato risuona con i versi:

Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni/
Le strade deserte di Tozeur/
Da una casa lontana tua madre mi vede/
Si ricorda di me delle mie abitudini/
E per un istante ritorna la voglia di vivere/
A un'altra velocità/
Passano ancora lenti i treni per Tozeur

Mentre la musica sfuma con tono sognante sui versi che evocano un’altra vita, un’altra dimensione che segue un ritmo diverso da quello della modernità, Don Giulio chiude la telefonata, si guarda intorno e si siede a un tavolino, dove una bambina con una felpa rosa è intenta a scrivere. Lui le chiede: “Che cos’è?”; “Un tema,” risponde la piccola, e inizia a leggerlo:

Il mio papà. Ogni giorno io vengo circondata da tanta gente, però chi mi va veramente a genio è il mio papà. Egli è un uomo basso e robusto, per me è un padre modello, forse anche troppo. Certo se devo dire la verità egli ha un debole per me anche perché sono l’unica figlia”.

Nanni, felice e colmo di tenerezza, in una società in crisi di valori, ritrova un barlume di speranza in ciò in cui crede e così afferma: “Vi amo, voi tutti che siete in questo bar!”

La scelta di inserire I treni di Tozeur sembra guidata da una malinconia sottile, mai invadente, che accarezza lo spettatore. È una tristezza che parla di un’epoca passata evocata dalle parole e dalle sonorità del brano. La voce di Battiato attraversa luoghi, suoni e culture “altre”, offrendo per un attimo a Don Giulio — e a chi guarda — una via di fuga simbolica dal disagio interiore e dal senso di smarrimento.

Tipico dello stile del cantautore, il brano si costruisce come un collage di suggestioni culturali e musicali; il titolo fa riferimento alla cittadina tunisina di Tozeur, oasi situata ai margini del deserto dopo Douz, circondata da un lago salato, dove si manifesta il fenomeno della fata morgana: miraggi che, un tempo, lasciavano intravedere carovane all’orizzonte e che oggi sembrano assumere la forma di treni. È questa visione sospesa tra realtà e illusione, a nutrire l’immaginario del brano, che alterna paesaggi lontani e memorie personali, culminando nel finale con un coro in tedesco che riprende un frammento da Il flauto magico di Mozart: «Doch wir wollen ihn dir zeigen, und du wirst». L’inserimento di questa citazione lirica rafforza l’atmosfera visionaria del pezzo, trasformandolo in una sorta di inno alla vita sospeso tra passato e visioni oniriche.

Il tema della nostalgia attraversa la trilogia dei film di Moretti realizzati negli anni ottanta. Tutti sono alimentati da un universo di oggetti e merci che diventano segni tangibili del passato: il flipper, il jukebox, la pista per automobiline. Questi elementi non sono semplici dettagli scenografici, ma veri e propri veicoli emotivi, capaci di attivare memorie collettive e individuali. In Bianca, Michele Apicella osserva fotografie di sé bambino, ne La messa è finita riemergono immagini della sua giovinezza. Le canzonette che punteggiano Palombella rossa sottolineano al tempo stesso la nostalgia e la regressione, amplificate dai carillon malinconici della colonna sonora firmata da Nicola Piovani.
È una malinconia straziante, fatta di perdite mai nominate apertamente, ma evocate da un mondo di immagini e suoni appena trascorsi. Fredric Jameson ha parlato a questo proposito di “una misteriosa carica d’affetto”, un sentimento che attraversa tutta la filmografia morettiana di quel decennio. Il passato, nei film di Moretti, ritorna con un’intensità continua e mai più eguagliata, come in questa lunga, struggente rievocazione dell’infanzia, come quella che Don Giulio fa davanti il corpo suicida della madre:

“Ti ricordi la prima volta che in un bar abbiamo preso la cioccolata calda con la panna, eh? E quel negozio al Corso, che regalava le pallette di gomma ai bambini che compravano le scarpe? Ce l’ho ancora quella palletta, hai visto? Ero felice quando uscivo con te. Mi sentivo al sicuro, perché sapevo che c’eri tu. È bello essere bambini, non avere responsabilità e nessuno che ti chiede niente. Mi ricordo un giorno, dopo aver giocato tutto il pomeriggio a pallone con gli amici, ci siamo stesi su un prato. Era stata una giornata lunga, bella, piena di luce; uno di quei giorni di primavera che sembra non finiscano mai. Il sole se n’era appena andato; eravamo stanchi, sudati, guardavamo il cielo che diventava sempre più scuro… sentivamo quest’erba fresca, e nessuno parlava… Ecco, quel giorno io sono stato felice!”
In questi passaggi, il tempo perduto non è solo rievocato, ma quasi rivissuto, come se il cinema fosse l’unico spazio possibile in cui quel passato potesse tornare, anche solo per un attimo. 

La messa è finita vince l'Orso d'argento al festival di Berlino, sorprendendo un po tutto l'ambiente del cinema italiano e consacrando di conseguenza il suo attore come uno dei più importanti registi giovani in Europa. Nelle statistiche di fine anno, la critica è unanime nel giudicare il film il migliore lungometraggio italiano del 1986.

G.L. Rondi, su «ll Tempo» del 2 gennaio 1987 si sofferma su Monicelli di Speriamo che sia femmina: «opera pensata metà con le gioie, gli umori e i ghiotti accenti della commedia all’italiana, metà anche con i graffi e le amarezze di un “grottesco” che anticipava già un modo diverso di fare cinema nella società. «Esattamente come sia pure con riflessioni più solitarie, Nanni Moretti ne La Messa è finita, un'opera sul disagio di vivere e sulla difficoltà, anzi sul rifiuto, ad adattarsi: con equilibri drammatici giusti, con facce e modi che, volutamente senza data, recavano tutti conseguentemente ben chiara la data di oggi». Di quest’esempio di sintesi critica, a noi interessa l'esordio, quell'«esattamente come» capace di accomunare, in un ideale schieramento delle forze migliori del nostro cinema gli stessi Monicelli e Moretti, i quali, appena un decennio prima, erano apparsi in televisione come i rappresentanti di due modi di pensare e fare il cinema esattamente agli antipodi.

La messa è finita addirittura furoreggia in Francia, dove esce a metà gennaio 1987. Dieci minuti di applausi alla prima della Cinémathèque di Parigi, prima di diffondersi in altre otto sale della capitale e in cinquanta nel resto del Paese. Su «L'Express» (9-15 gennaio 1987), si legge: «Con Moretti è l'Italia degli anni 80 che s'inscrive sui nostri schermi: più inquieta e, soprattutto, meno commediante.

Il battiatesimo di Nanni Moretti raggiunge il suo apice nel 1989, con la pellicola Palombella rossa. Il regista torna a vestire i panni di Michele Apicella, qui trasformato in un funzionario del Partito Comunista Italiano che, dopo un incidente, si ritrova senza memoria. La sua amnesia è più di una condizione clinica: diventa metafora potente della crisi d’identità che attraversa il PCI, ormai in pieno smarrimento ideologico alla vigilia della caduta del Muro di Berlino. Il film è un’acuta riflessione sul disfacimento delle ideologie novecentesche. Una sconfitta generazionale raccontata con lucidità e ironia, dove la perdita della memoria non è solo individuale ma collettiva, politica, storica. Apicella, figura a metà tra il doppio del regista e una sua versione distopica, incarna il fallimento di un’intera epoca, cercando nella frammentarietà dei ricordi un appiglio per ridefinire se stesso.

Nel percorso a ritroso della sua memoria, durante una tribuna elettorale nell’appello agli elettori, Michele recita: “venite nel partito, prendetelo, vediamo insieme cosa possiamo fare, questo sentimento popolare...”, e poi continua cantando del tutto stonato i versi da E ti vengo a cercare:

nasce da meccaniche divine/
un rapimento mistico e sensuale/
mi imprigiona a te/

parte la base della canzone nel film e lui continua a cantare, amplificando la sua stonatura:

Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri/
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane/
Fare come un eremita che rinuncia se’/

Il conduttore della tribuna lo guarda perplesso e con una smorfia è come se dicesse: “ma che sta facendo? Perché canta?”
La scena poi continua in piscina durante la partita di pallanuoto. Michele continua a cantare e tutto il pubblico intona, andando fuori tempo con la base, il ritornello della canzone:

Questo secolo oramai alla fine/
Saturo di parassiti senza dignità/
Mi spinge ad essere migliore/
Con più volontà

Agli ultimi versi della canzone segue il tifo della squadra che urla : “Acireale!”
Nel contesto di un film politico “solo in superficie,” come è stato definito, la spiritualità della canzone di Battiato assume una dimensione simbolica. Il bisogno della presenza divina, espresso attraverso versi come “Questo sentimento popolare / Nasce da meccaniche divine”, si trasforma, sotto la direzione di Moretti, in una riflessione sulla necessità di un senso più alto che vada oltre le ideologie e le strutture politiche in crisi. La trascendenza qui non è solo religiosa, ma anche esistenziale: una tensione verso qualcosa di “altro” che possa restituire significato in un momento storico segnato dalla frantumazione delle certezze.
I versi “Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri / Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane / Fare come un eremita / Che rinuncia a sé” riflettono la difficoltà di Michele, e più in generale di una generazione intera, nel riconciliare la necessità di trascendenza con un mondo disilluso. In questo senso, la scelta di Moretti di utilizzare E ti vengo a cercare appare profondamente coerente con il tema centrale del film: la ricerca di un nuovo equilibrio, di una fede che possa sopravvivere al crollo delle ideologie e all’inevitabile fragilità della memoria personale e collettiva. Eppure nel 2002, intervistato da Alberto Crespi su Rai Radio 3 a proposito dell’uso delle sue canzoni nel cinema di Nanni Moretti, Franco Battiato rispondeva così:

«Devo dire che l’utilizzo che Nanni ha fatto di alcune mie canzoni è stato perfettamente corretto, tranne, secondo me, in Palombella rossa. Per il cinema e la pubblicità è necessario chiedere il permesso agli autori, e io gliel’ho dato volentieri, pensando: “starà scherzando”. Mi aspettavo un’ironia, e invece no, lui l’ha presa sul serio. Questo mi ha sorpreso un po’, ecco…»

La nostalgia per gli anni ’80 ritorna nell’ultimo film di Moretti del 2023, Il Sol dell’avvenire, nel quale viene inserito il brano Voglio vederti danzare. Tra le sequenze più emblematiche del film, c’è quella in cui il regista, nei panni del protagonista, si lascia andare a una danza improvvisata sulle note del celebre brano di Franco Battiato, coinvolgendo gradualmente tutta la troupe del film che sta cercando di realizzare. La canzone, pubblicata nel 1982 come apertura dell’album L’arca di Noè, accompagna una coreografia surreale e collettiva, che interrompe la narrazione con leggerezza e crea un momento di sospensione dal tono ironico e straniato.
Ciò che accomuna il regista romano e il cantautore siciliano è un’attenzione alla dimensione interiore, una certa distanza critica dalla realtà e l’uso dell’ironia come strumento per raccontarla. Insieme, musica e immagini riescono a evocare qualcosa che va oltre la superficie, introducendo un elemento di sogno e riflessione all’interno del racconto. E dopo la visione del film, la  celebre canzone di Battiato non risuona più allo stesso modo nella nostra mente: ci invita, come accade a Moretti, a tornare a danzare, inseguendo il ricordo vivo di una stagione culturale che continua a parlare al presente, seppur con la malinconia di un passato che non può più tornare.

Avanti
Avanti

“Bellissima”: la lezione di Luchino Visconti